Testimonianze
«Perché non torni alla normalità, perché non ti metti a posto?»; il monsignore e altri amici preti mi hanno fatto per l’ennesima volta la domanda di rito e hanno ribadito: «…ormai hai un’età…». Si tratterebbe di “fare il parroco, entrare pienamente nel sistema economico concordatario, parrocchiale”. Si tratta di non fare più una vita precaria e raminga come un figlio di nessuna istituzione, cioè accettare le regole previste dal contesto ecclesiale.
È stato immediato dire di no, ma quale fedeltà, quale idea evangelizzante o motivante sostiene questo restare “esterno”, “di frontiera” – come si diceva un tempo – uno che «fai il parroco meglio di me – mi diceva un amico prete, credendo di farmi un complimento -, sembri credere più tu alla parrocchia di me, mentre predichi che deve essere superata, eliminata…». Vivo contraddizioni che fanno parte anche della mia esperienza di PO. Ma almeno i contrasti si evidenziano e i termini della questione sembrano chiarirsi.
Ritorna il criterio dell’evangelizzare come condividere, fondato meno sulle parole e sugli slogan e più sulla vita vissuta. Restano le scelte di verità e di povertà reale, a cui restare radicati; un silenzio vigile e un’attesa di un “ritorno” promesso, che sembra sempre più lontano, sempre meno utopia realizzabile.
Si fa cammino nella nebbia sempre più fitta. Nasce anche dentro, una nostalgia di quiete, di garanzie economiche, di ritorno a casa, di situazioni socialmente vincenti e riconosciute.
Tutto questo è di certo più riposante, alla mia età, di una testimonianza dal profondo carattere “perdente”, di un lavoro stressante e ripetitivo, inserito nella miseria umana, che non sembra finire mai. Anzi si allarga e cresce a fasce sempre più ampie di pensionati minimi, di invalidi da lavoro o civili, di disoccupati senza ruolo o riconoscimento sociale. Si tratta di operai sfiniti da anni di lavoro edile, metalmeccanico, tessile, agricolo e non ancora in età “da pensione”, intimoriti dal futuro della loro pensione. Questi si sentono dire: “non hanno versato anni di contribuzione per te, che eri manovale, che eri apprendista, che bastava lavorare per mangiare e far mangiare, a testa bassa, “fidandoti”, non sapendo, accontentandoti”.
Al Patronato si parla così, mentre ti assale la marea montante del: “tu non sei nessuno, non decidi tu della tua vita e del tuo futuro, del tuo lavoro e della tua vecchiaia”. Come e cosa evangelizzi qui, di che Dio puoi parlare? Se le parole e le spiegazioni verbali non contano più, sono superate in modo indicibile dalla vita. Con che cosa e come parlare e testimoniare la Parola?
Esserci è molte volte più importante del dire, dello spiegare, dello stesso consolare. Cosa significa perciò evangelizzare? È possibile farlo senza rovesciare i criteri del trasmettere e del conoscere? “Potete contare su di me, diceva Gesù Cristo; e questo è il centro della lieta notizia per tutti”. Meritare fiducia, poter contare su…, far da riferimento per chi cerca pari opportunità o ha bisogno di solidarietà, nel mondo del lavoro o del vivere quotidiano, può avere a che fare con l’evangelizzazione? di quale nome di Dio si parla e si testimonia? Forse essere fedeli alle scelte, dare loro continuità, esserci, è già un fiore che cresce “mentre il contadino dorme”… (Mt. 13, 29). Stare da perdente, con i perdenti della condizione operaia, anche se fai parte di una categoria comunque vincente, assicurata, con i messaggi evangelizzanti già pronti e confezionati in catechismi asettici e senza bisogno di legami al vivere quotidiano.
È sempre un diamante da non svalutare e da cercare con il tesoro evangelico. Restare tra le file dei precari, dei dipendenti, degli insicuri (in un contesto di denaro divenuto assoluto), legati al poco più di mezzo milione mensile, che la burocrazia rende sempre incerto. Questo non è già tener vivo un “poter contare su …” nella linea dell’incarnazione? Forse è anche evangelizzare, senza fughe o facili trascendentalismi, che teorizzano evasioni dal duro e triste lavoro di ogni giorno. Questo sì è da affrontare e svolgere in continua creatività, con il coraggio di vivere nella speranza e nella dignità: vivere in modo nuovo in un mondo vecchio.