Preti operai e contestazione cattolica

L’esperienza dei preti operai, oltre a divenire parte integrante dei fenomeni di contestazione cattolica negli anni Sessanta e Settanta, diede un considerevole impulso al dibattito sul ministero sacerdotale nella società contemporanea e sulla teologia del sacerdozio. Tali riflessioni erano già emerse, negli anni Quaranta e Cinquanta in Francia e Belgio, intrecciandosi all’azione condotta dai primi sacerdoti al lavoro, ma si intensificarono dopo il Concilio Vaticano II.
La gerarchia ecclesiastica era intervenuta in modo drastico sui preti operai, prima, nel 1954, imponendo loro di ridurre l’orario di lavoro e, all’apparenza in modo definitivo, nel 1959, sancendo l’incompatibilità tra sacerdozio e lavoro manuale. La dura condanna della Santa Sede di tale sperimentazione apostolica, destinata nei progetti iniziali alla riconquista delle masse operaie lontane dalla Chiesa, provocò reazioni anche in Italia, dove esponenti marginali del clero maturavano riflessioni sulla trasformazione dei modelli pastorali e sulle conseguenze religiose dei fenomeni di modernizzazione della società.
Dopo i primi brevi tentativi condotti negli anni Cinquanta in Toscana da Bruno Borghi e Sirio Politi, in Italia una più diffusa presenza dei preti operai si ebbe dalla fine degli anni Sessanta. Il Concilio aveva segnato un nuovo inizio per i sacerdoti che, in Italia, in Francia e altrove, volevano lavorare manualmente. Il decreto conciliare Presbyterorum ordinis del 7 dicembre 1965, affermava infatti:

Tutti i presbiteri […] hanno la missione di contribuire a una medesima opera, sia che esercitino il ministero parrocchiale o sopraparrocchiale, sia che si dedichino alla ricerca dottrinale o all’insegnamento, sia che esercitino un mestiere manuale – condividendo le condizioni di vita degli operai, nel caso che ciò risulti conveniente e riceva l’approvazione dell’Autorità competente –, sia infine che svolgano altre opere d’apostolato od ordinate all’apostolato.

Il richiamo esplicito alla scelta del lavoro manuale da parte del prete fu poi ricordato da Paolo VI nella lettera apostolica Octogesima adveniens del 1971, dove, nel ribadire l’impegno attivo della Chiesa nel mondo contemporaneo, si chiedeva tra l’altro:

Non è forse per essere fedele a questa volontà che la Chiesa ha inviato in missione apostolica tra i lavoratori dei preti che, condividendo integralmente la condizione operaia, ambiscono di esservi testimoni della sollecitudine e della ricerca della Chiesa medesima?

Alcuni incontri contribuirono in maniera determinante alla nascita del gruppo dei preti operai italiani, a partire dalla riunione tenutasi alla fine del 1968 tra Sirio Politi, Carlo Carlevaris, Luisito Bianchi e Giovanni Carpenè (P. CRESPI, Prete operaio. Testimonianze di una scelta di vita, Edizioni Lavoro, Roma 1985, p. 3).
In seguito, il 6 e 7 luglio 1969, si svolse a Chiavari il primo convegno nazionale dei preti operai italiani, sul tema Vivere il nostro sacerdozio nel lavoro, al quale parteciparono 23 sacerdoti giunti da diverse parti del Centro e del Nord Italia (G. FORNERO, I preti operai, in Uomini di frontiera. Scelta di classe e trasformazioni della coscienza cristiana a Torino dal Concilio ad oggi, Cooperativa di cultura Lorenzo Milani, Torino 1984, p. 275). La lettera indirizzata a tutti i preti e religiosi impegnati in un lavoro manuale per invitarli all’incontro era partita dalla comunità parrocchiale di Santa Maria a Bicchio, in una frazione di Viareggio, guidata da Sirio Politi (M. SAMBRUNA, Cristo in fabbrica: la scelta dei preti operai italiani, in Annali di scienze religiose, 2009).
Si realizzava in questo modo l’idea di creare un coordinamento unitario che avrebbe, nel corso degli anni, messo in risalto aspetti comuni e questioni irrisolte.

La vicenda dei preti operai italiani fu strettamente legata al territorio d’appartenenza, ai rapporti che intercorsero tra sacerdoti e vescovi e all’evoluzione locale dell’associazionismo cattolico. Quella che è stata definita «una biografia al plurale» (M. MARGOTTI, La storia dei preti operai: una biografia al plurale, in «Itinerari», 2003) si sviluppò in Italia con caratteristiche del tutto originali, sia rispetto alle esperienze maturate in altre nazioni, sia relativamente all’insieme della Chiesa italiana. Negli anni successivi al Concilio, la vicenda dei preti operai ebbe una notevole influenza dalla vasta area dei cattolici del dissenso, ma non si esaurì unicamente in tale esperienza. Lo svolgimento di funzioni e di mansioni non tradizionalmente affidate al clero, a partire dal lavoro salariato, pose in discussione il ruolo del sacerdozio all’interno della Chiesa, ma soprattutto generò nuove consapevolezze e cambiamenti di mentalità. Dalla prospettiva dei sacerdoti al lavoro, la Chiesa cattolica doveva trasformarsi dal contatto con il proletariato: la classe operaia era considerata non soltanto il gruppo sociale verso cui indirizzare una missione apostolica, ma «la pietra di paragone su cui confrontare la credibilità e la coerenza evangelica del cattolicesimo» (Ivi).
I percorsi dei sacerdoti al lavoro «riassumono in sé […] il rapporto travagliato e mai risolto tra cristianesimo e società moderna» (Ivi). È sufficiente infatti osservare gli attori di tale narrazione – preti operai, gerarchia ecclesiastica, associazioni cattoliche, sindacati, gruppi politici – per accorgersi dei modi in cui la Chiesa cattolica si è incontrata, confrontata e spesse volte scontrata con la modernità. I preti operai – a partire dalla capacità d’inserimento e di incidenza nel movimento operaio e in generale negli ambienti di lavoro – cercarono di superare la concezione di cristianità e trovare un nuovo ruolo della Chiesa in un mondo che sembrava aver messo al margine Dio e la religione. Le prese di posizione di alcuni vescovi contro le scelte compiute dai laici e dai preti impegnati negli ambienti operai offrono la possibilità di osservare uno spaccato significativo della varietà delle diverse idee di Chiesa presenti sul territorio nazionale negli anni Settanta. Una peculiarità della realtà italiana fu, difatti, l’incidenza della provenienza territoriale nel favorire atteggiamenti e scelte dei preti operai.
Partendo dai dati raccolti nel 1973 della Segreteria nazionale, che aveva sede a Parma, in via Gallenga, ed era coordinata dal diacono Angelo Piazza, è possibile ricostruire la geo-tipologia dei preti operai italiani, seppur alcuni rifiutarono qualsiasi proposta di organizzazione a livello nazionale:

1. il primo gruppo comprendeva i sacerdoti della regione piemontese, della Valle d’Aosta e della Liguria con referente don Silvio Caretto. Fu il raggruppamento più numeroso e coeso, anche grazie alle figure di Carlo Carlevaris e Giovanni Carpenè. L’esperienza piemontese pose la questione di una Chiesa radicata nella storia e nella cultura e quella del servizio attraverso i ministeri. Secondo Antonello Famà, il modello ministeriale di prete operaio, concepito da questo raggruppamento, fu di tipo “ecclesiale” (A. FAMÀ, Cenni sulla storia dei preti operai italiani. Tentativo di una geo-tipologia, in «Itinerari», 2003).
2. Il secondo gruppo racchiudeva i sacerdoti della regione lombarda con referente don Gianni Chiesa. Tale raggruppamento, trovatosi in una zona di forte militanza politico-sindacale, pose il problema di come ridefinire le categorie della fede e il rapporto con la classe operaia; il modello ministeriale di prete operaio fu infatti di tipo “politico”.
3. Il terzo gruppo incluse i sacerdoti dell’Emilia Romagna con referente don Giuseppe Dossetti junior. L’esperienza emiliana, sorretta dalle nu- merose comunità di base e dal lavoro svolto spesso in realtà artigiane, alimentò un ministero interessato soprattutto a riflessioni di tipo teologico-pastorale.
4. Il quarto gruppo fu quello toscano coordinato da Sirio Politi e Beppe Socci, sorto intorno alla comunità del porto di Viareggio; tale raggruppamento si caratterizzò per la scelta del lavoro artigiano, inteso anche come recupero di cultura, di mestieri e come possibilità d’inserimento sociale di ragazzi in difficoltà. Il ministero di prete operaio fu di tipo “spirituale”.
5. Il quinto gruppo, anch’esso abbastanza consistente, raccolse i preti operai delle regioni del Veneto, Friuli e Trentino, coordinati da don Sergio Pellegrini. Il percorso dei preti operai del Triveneto, formatisi in una Chiesa dal rilevante ruolo sociale, pose il problema dello svuotamento del potere ecclesiastico, riaffermando la priorità della trascendenza e la libertà di Dio e del credente.
6. Il sesto gruppo comprese i sacerdoti marchigiani e umbri, coordinati da don Piergiorgio Boiani.
7. Il settimo incluse i sacerdoti delle regioni meridionali e delle isole, in particolare delle città di Roma, Napoli, Matera, Siracusa, Sassari e Cagliari, coordinate dal napoletano don Franco Brescia.

La nascita del gruppo dei preti operai in Italia si innestò e alimentò i fenomeni di contestazione sociale e politica che investirono la società dalla fine degli anni Sessanta. Il fenomeno racchiudeva in sé una «prima grossa critica alla figura del sacerdote […] una critica pratica, posta dal tipo di scelta e dalla prassi e stile di vita conseguenti», come sostenuto da Mario Cuminetti (Il dissenso cattolico in Italia (1965-1980), Rizzoli, Milano 1983). Lo sviluppo dell’esperienza italiana si caratterizzò per il forte intreccio tra temi religiosi e politici, in particolare per le scelte compiute da alcuni preti operai durante la campagna referendaria del 1974 e le elezioni politiche del 1976.

[…]

Il dualismo che si presentò all’interno della Chiesa cattolica italiana, all’indomani delle elezioni politiche del 1976 fu lo specchio della realtà sociale, anch’essa attraversata da profonde spaccature.
Il 20 ed il 21 giugno 1976 partecipò al voto il 93% degli elettori, facendo registrare un recupero della Dc rispetto alle amministrative (38,7%) e l’ulteriore crescita del Pci (34,4%). La Democrazia cristiana aveva conseguito una vittoria politica, ma anche il Partito comunista aveva vinto; il voto del 20 giugno non aveva, così, risolto l’incertezza politica italiana che, anzi, risultava aggravata. Il Pci aveva raccolto molti consensi a sinistra dello schieramento politico e aveva conquistato pure fasce di elettori più moderate, anche grazie alla prospettiva di un governo delle riforme sostenuta dal segretario Enrico Berlinguer.
Gli avvenimenti che accaddero nella seconda metà degli anni Settanta, fuori e dentro la Chiesa, mutarono radicalmente la prospettiva di lotta che alcuni preti e operai avevano condiviso dalla fine degli anni Sessanta.
Al convegno nazionale dei preti operai del 1976 emersero chiaramente tali divisioni. Proprio il confronto con la Conferenza episcopale italiana fu al centro del convegno che si tenne a Serramazzoni, in provincia di Modena, dal 3 al 6 gennaio 1976 intorno al tema Contro l’uso antioperaio della fede nella crisi attuale. Evangelizzazione e promozione umana per i preti operai e militanti credenti.
Parallelamente alla condanna dell’avvicinamento dei cattolici al marxismo, la CEI stava cercando di stabilire un “raccordo organico” con l’organizzazione dei preti operai italiani. Cesare Pagani, vescovo di Gubbio e Città di Castello dal 1972 al 1981, membro della Commissione per i problemi sociali e del mondo del lavoro della CEI, aveva incontrato il 20 dicembre 1975, nella sede delle edizioni Dehoniane di Bologna, Angelo Piazza portavoce dei preti operai. La proposta di intavolare rapporti stabili fu discussa il primo giorno di dibattito a Serramazzoni, ma fu immediatamente rifiutata. Istituzionalizzare i rapporti con la CEI, secondo la mozione presentata da Carlo Carlevaris, avrebbe portato a un’organizzazione verticistica, in contrasto con la struttura democratica del gruppo, e limitato l’indipendenza delle scelte su base regionale o individuale. Nonostante la proposta di monsignor Pagani fosse stata respinta, quest’ultimo insistette per poter intervenire ugualmente al convegno e spiegare meglio l’ipotesi di raccordo. I preti operai riuniti nella sala congressuale accolsero il vescovo cantando L’Internazionale con il pugno chiuso levato.
Tale vicenda provocò conseguenze rilevanti, soprattutto per il gruppo dei preti operai emiliano-romagnoli. Giuseppe Dossetti jr rilevò la tendenza all’estrema ideologizzazione del collettivo nazionale, che si era espressa con particolare impetuosità nello scontro tra preti operai e vescovi. Tale considerazione portò il sacerdote reggiano a una chiara determinazione, affidata a un ciclostilato preparato subito dopo l’incontro, dove sostenne:
«Al convegno di Serramazzoni del gennaio del 1976 ritenni conclusa la mia esperienza nel movimento nazionale dei preti operai per il radicalismo ideologico che vi riscontravo» (Dossier Convegno nazionale preti operai Serramazzoni 3-6 gennaio 1976, Documento conclusivo).
Il coordinamento del gruppo regionale fu affidato al gesuita Biagio Turcato. Nonostante la critica portata alle posizioni prevalenti nel movimento nazionale dei sacerdoti al lavoro, Dossetti jr non abbandonò l’impegno con il gruppo regionale dell’Emilia Romagna che s’incontrò l’8 maggio 1976 a Bologna per fare il punto su quanto emerso con le ultime vicende. La fase più dinamica dell’esperienza dei preti operai dell’Emilia Romagna sembrava essere terminata, anche se gli incontri proseguirono sino alla fine degli anni Settanta, risolvendosi nello scambio di esperienze e nell’amara presa di coscienza dell’assottigliamento delle fila già ridotte dei preti operai della regione.
Alla fine degli anni Settanta la stagione di lotte vissute a fianco della classe operaia cominciò ad affievolirsi. I preti operai italiani lasciarono posto alle nuove riflessioni in campo teologico condotte con continuità e tenacia nel collettivo nazionale, che ormai appariva sempre più rimpicciolito e nel quale cominciò ad affiorare, sempre più marcatamente, una “guida lombarda”.

Giuseppina Vitale

contributo di Giuseppina Vitale all’opera
LA RIVOLUZIONE DEL CONCILIO
La contestazione cattolica negli anni Sessanta e Settanta
di SILVIA INAUDI – MARTA MARGOTTI
Edizioni Studium, Roma 2017


 

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