In vista del convegno 2013
IL FUTURO DEL CRISTIANESIMO,
IL FUTURO DELLA POLIS:
ECCLESIA FILIA VERBI
1. Introduzione
Quando mi sono posto davanti a questo tema, con il mio foglio bianco e ho scritto il titolo, il primo pensiero che mi è venuto è stato questo: magari fosse vero che la chiesa non abbia altra madre che la Parola di Dio, magari fosse vero che essa non vive di altro che di quella Parola, cioè, per riprendere una famosa espressione di Lutero, che essa sia «concepita, formata, nutrita, generata, educata, pascolata, vestita, ornata, fortificata, armata, conservata» dalla Parola di Dio!
Fosse vero, come dice sempre Lutero, che «tutta la vita e la sostanza della chiesa sta nella Parola di Dio»! Fosse vero che essa non si nutre di altro cibo, non obbedisce ad altre voci, non si ispira ad altri modelli che quelli offerti dalla Parola di Dio. Fosse vero, insomma, che la chiesa sia figlia e non figlia prodiga della Parola di Dio! Figlia e non figliastra, figlia e non sorella, figlia adulta, certo, ma pur sempre figlia, dall’inizio alla fine della sua storia.
È certamente vero che la chiesa è stata figlia, anzi è nata così: non ci sarebbe chiesa se non ci fosse stata questa filiazione; ma poi questa figlia si è “emancipata” e, pur conservando quella madre, ne ha adottate altre ed è stata anch’essa adottata da altre madri, per cui essa non è più solo figlia della Parola, ma figlia di tante altre madri.
Alla fine di questo primo movimento interiore, davanti alla pagina bianca, mi sono chiesto, e vi chiedo: sappiamo ancora cosa possa significare essere una chiesa figlia della Parola, della Parola nuda, essenziale, sovente anche ostile, inquietante e spiazzante? In sostanza mi sono chiesto: figlia della Parola è ciò che siamo o ciò che non siamo?
2. “Figlia della Parola”: verità e paradosso
Parlo di paradosso (dal greco parà ten doxan, «il contrario di ciò che appare») perché la parola (e la Parola) è una delle realtà più misteriose dell’esperienza umana: non c’è nulla di più esile, di più fragile e inconsistente della parola, la quale appare e scompare immediatamente dopo essere stata pronunciata, tanto che non esiste realtà dall’esistenza più breve; la parola è di una mortalità impressionante e per sussistere ha bisogno di qualcosa che non contiene, di un supporto esterno a lei, che può essere la memoria o la scrittura; la precarietà della parola non ha paragoni nella realtà che ci circonda. Dire allora che la chiesa è figlia della Parola significa dire che la chiesa è figlia di una realtà effimera.
D’altro canto, la parola, pur essendo il principale mezzo di comunicazione, di conoscenza, di cultura e di civiltà, è però strutturalmente equivocabile: non solo può essere fraintesa, ma può essa stessa generare equivoci, ambiguità e oscurità. La parola, regina della comunicazione, è anche fonte di confusione; anche quando è chiara, essa non è univoca, ma equivoca.
Per fare un solo esempio, soffermiamoci sui vari significati del termine «verità» in greco (alétheia).
Il primo significato, derivante da a-lanthano, è «ciò che non può restare nascosto»: come si suol dire, la verità prima o poi viene a galla.
Secondo significato: «ciò che non fa dormire, che agita»: la verità non si può sotterrare.
Terzo significato, presente nel Cratilo di Platone: alétheia sarebbe una contrazione di théia («divina») e ale («agitazione, movimento, turbamento»): la verità sarebbe dunque una sorta di «divina inquietudine» o, come altri traducono, «vagabondare di dio». Questa parola, insomma, che più effimera ed equivocabile non si può, è il modo e il luogo scelto da Dio per comunicarsi.
Già Filone definisce il logos «il figlio primogenito di Dio, il secondo Dio, l’angelo più antico, l’ombra di Dio».
L’evangelista Giovanni, come noto, fa un passo in più e afferma che «la parola è presso Dio, la parola è Dio».
Agostino, da par suo, così commenta: «Et ideo verbo tibi coaeterno simul et sempiterne dicis omnia, quae dicis, et fit, quidquid dicis ut fiat; nec aliter quam dicendo facis; nec tamen simul et sempiterna fiunt omnia, quae dicendo facis». «Con questa parola coeterna con te enunci tutto assieme e per tutta l’eternità ciò che dici, e si crea tutto ciò di cui enunci la creazione. Non in altro modo, se non con la parola, tu crei; ma non per questo si creano tutte assieme e per tutta l’eternità le cose che con la parola crei» (Confessiones XI, 7.9).
E ancora: «In hoc principio, Deus, fecisti caelum et terram in Verbo tuo, in Filio tuo, in virtute tua, in sapientia tua, in veritate tua miro modo dicens et miro modo faciens. Quis comprehendet? Quis enarrabit? Quid est illud, quod interlucet mihi et percutit cor meum sine laesione?». «In questo principio, o Dio, creasti il cielo e la terra: cioè nel tuo Verbo, nel tuo figlio, nella tua virtù, nella tua sapienza, nella tua verità, con una parola straordinaria compiendo un atto straordinario. Chi potrà comprenderlo? chi descriverlo?» (Confessiones XI, 9.11).
Ecco il doppio mistero legato alla Parola: essa non è solo strumento usato da Dio per comunicare, ma anche abitazione di Dio. Nella Parola Dio diventa spazio!
Dire allora che la chiesa è figlia della Parola significa dire che la chiesa è figlia di Dio e che, paradossalmente, questo accade mediante la più effimera ed equivocabile delle realtà umane.
Secondo Barth, Parola e mistero formano un tutt’uno, perché la Parola rivolta direttamente comunica indirettamente la realtà di Dio: una cosa è la parola pronunciata, altra cosa è il messaggio (un conto è la parola «amore», altra cosa il concetto di «amore»; un conto è la parola Dio, altra cosa è Dio). Ecco perché si addice alla parola la categoria del mistero. E qui non è fuori luogo ricordare l’affermazione di Paolo: «ora vediamo come in uno specchio, in modo oscuro; ma allora vedremo faccia a faccia; ora conosco in parte» (1Cor. 13,12).
Ecclesia filia Verbi è dunque verità, perché la parola è Dio stesso; ed è paradosso, perché nella sua manifestazione Dio si nasconde nella parola, nasconde la parola nella lettera, nasconde la sua divinità nell’umanità, nasconde il suo mistero nel soffio dello Spirito.
3. “Figlia della Parola”: dalla Parola ubbidita alla Parola invocata
All’inizio della lettera agli Ebrei si dice: «Dio, dopo aver parlato anticamente molte volte e in molte maniere ai padri per mezzo dei profeti, in questi ultimi giorni ha parlato a noi per mezzo del Figlio, che egli ha costituito erede di tutte le cose, mediante il quale ha pure creato l’universo» (1,1-2). La Parola è davvero l’alfa e l’omega della storia di Dio con noi.
Il prototipo della parola ubbidita è Abramo, diventato Abrahamo, padre di popoli. Quella rivolta ad Abramo non è parola che descrive, ma parola che chiama, anzi che «chiama fuori» dal clan, dal guscio dell’io, fuori dal passato dell’idolatria per andare non si sa bene dove; si tratta di un’uscita a rischio, non garantita da niente. Questa chiamata trasferisce Abramo in una promessa che non finisce mai: la terra promessa viene conquistata e poi perduta e poi ancora conquistata. La promessa, accompagnata da un patto e una presenza, non è solo per Israele ma per tutte le famiglie della terra, perché il Dio di Israele non è un Dio tribale, ma un Dio universale.
Se dunque la parola è promessa che dischiude un futuro, la chiesa (ekklesia, da ek-kaleo, «chiamare fuori») è la continuatrice di Abramo. La chiesa è figlia della parola, come Israele, Mosè, i profeti, Gesù e Giovanni Battista, gli apostoli e Paolo sono “figli” della Parola. Ciò che è successo all’inizio con Abramo si è ripetuto nei secoli e continuerà nel futuro: è dalla Parola che
nasce la fede e la fede è la realtà intorno alla quale si costituisce la chiesa.
Nel nostro tempo si ha l’impressione che la Parola non goda di ottima salute, non tanto perché viviamo nella civiltà dell’immagine (che tutto sommato c’è sempre stata), ma per via dello svuotamento delle parole che hanno perso il loro rigore (si potrebbe parlare, con André Neher, di esilio della parola). Lo stesso Bonhoeffer osservava come le grandi parole bibliche della fede cristiana si fossero consumate e suggeriva un tempo di silenzio per la chiesa, la quale avrebbe dovuto astenersi dal proclamare la Parola per concentrarsi su due cose soltanto: la preghiera e la pratica della giustizia.
La chiesa non ha avuto il coraggio di tacere per un tempo e di essere chiesa solo nella preghiera e nella pratica della giustizia. Per questo forse il linguaggio della chiesa non si è rinnovato e, non essendosi rinnovato, fa oggi così poca presa sull’animo della nostra generazione. Ci si potrebbe perciò chiedere se ciò che la chiesa, in quanto figlia della Parola, dovrebbe fare non sarebbe invocare la Parola, cioè chiedere a Dio una parola capace di generare, non solo di ammaestrare, di formare e di informare.
Io credo che dovremmo chiedere a Dio la parola che genera, una parola che non sia soltanto sophia, ma anche dynamis. In questo senso l’espressione figlia della parola dovrebbe diventare figlia della preghiera per la parola.
4. “Figlia della Parola”: come sarebbe se fosse vero
Come dovrebbe essere una chiesa che sia figlia della Parola?
Lo dico prima in negativo. Chiesa figlia della Parola significa non figlia della tradizione. Certo, siamo tutti figli della tradizione e siamo tutti consapevoli del fatto che senza tradizione non ci sarebbe neppure la chiesa, visto che la tradizione è il riflesso nella storia della fedeltà di Dio e della perseveranza della fede da una generazione all’altra. Tutti noi abbiamo ricevuto una testimonianza da coloro che ci hanno preceduto.
Non voglio dunque diminuire il valore della tradizione. Voglio invece dire che, se l’esistere della chiesa dipende prevalentemente dalla tradizione e non dalla Parola, essa diventa figlia di se stessa. Filia Verbi, pertanto, significa in negativo che la chiesa non può essere figlia di se stessa, cioè non può pensare di attingere la vita dalla sua storia, per quanto stupenda essa sia stata, non può nutrirsi di se stessa.
In positivo, mi ridurrei alle tre cose che l’apostolo Paolo pone come centro della vita cristiana: fede, amore e speranza.
Cosa significa fede non si sa perché la fede è come Dio, non si spiega; la fede è cosa ben strana, non foss’altro per il fatto che la fede continua a sopravvivere al pensiero critico e scientifico. Scremata da tutte le sue patologie, la fede continua a resistere e a esistere. Io mi stupisco che ci sia ancora la fede, visto che essa non è figlia né della ragione né della volontà né del sentimento.
La speranza è la trasposizione nella vita e nella storia della promessa ed è il nucleo costituivo della Parola diventata carne. È una promessa diventata realtà e a sua volta ridiventata promessa. La realtà della Parola di Dio è tale per cui tutto è sempre ancora nella forma della promessa. Parlando, Dio orienta verso un futuro al quale tende Dio stesso.
L’amore che traspare dalla Parola di Dio è la capacità di Dio di assumere la condizione mortale. L’amore è l’assunzione dell’altro nella sua caducità e nella sua sofferenza.
Essere figlia della Parola significa una grande concentrazione sull’essenziale e per una chiesa l’essenziale è fede, speranza e amore.
Paolo Ricca
Facoltà Valdese di Teologia / Roma
Bergamo, 13 ottobre 2007
(testo ripreso dal registratore e non rivisto dall’Autore)
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