Condizioni di lavoro
Un nuovo re, che non sapeva nulla di Giuseppe, salì al potere nell’Egitto. Egli disse al suo popolo:
‘Questi Israeliti sono ormai diventati più numerosi e più forti di noi! È ora di prendere provvedimenti adatti contro di loro perché non aumentino ancora di più…’
Allora gli Egiziani imposero agli Israeliti alcuni capi perché li opprimessero con lavori forzati… Li trattarono con estrema durezza… Resero la loro vita impossibile con lavori insopportabili (Esodo, cap. 1)
In una parola, li trattarono in modo disumano.
20 NOVEMBRE 1987
Ho terminato da alcune ore la settimana di primo turno.
È stata una settimana come tantissime altre: fisicamente dura, psichicamente angosciante. Pensavo che col tempo il mio fisico e la mia psiche si sarebbero adattati a questo lavoro manuale. Ed invece no!
Mentre mi preparavo, nello spogliatoio, a terminare questa giornata di Fabbrica – oggi fatta di 7 ore per via della riduzione dell’orario – per l’ennesima volta si è generato in me un pensiero di ribellione: ‘e poi dicono che ognuno ha il suo lavoro!?’
Più mistificazione di così!
Nonostante questo stato d’animo ho preso la decisione di leggere, per la prima volta da quando sono entrato in fabbrica, qualcosa di Teologia del Lavoro, nella sua più recente e completa esposizione: la Laborem Exercens.
Qualche anno fa avrei cestinato il tutto, senza minimamente pensarci su. L’ascolterò dalla mia attuale postazione operaia per vedere quali riflessioni/pensieri provocherà in me.
Per questo ho deciso di rivolgermi al mio solito diario.
21 NOVEMBRE 1987
È sabato. Mi attrezzo interiormente ad affrontare questa avventura. Le ore di riposo fisico mi hanno ridato un po’ di lucidità mentale.
L’uomo, mediante il lavoro, deve procurarsi il pane quotidiano. Con la parola ‘lavoro’ viene indicata ogni opera compiuta dall’uomo, indipendentemente dalle sue caratteristiche e dalle circostanze. (L.E.)
Ci siamo: tutti i lavori sono uguali, ognuno ha il suo lavoro!
Io ho ripensato al mio, quello di operaio.
Da 14 anni svolgo la mansione di tranciatore su grosse macchine semiautomatiche (nel senso che non funzionano senza l’apporto dell’operaio): la più piccola esprime una potenza di 125 tonnellate, la più grande 250 tonn. Di queste macchine ce ne sono 4, più una per usi brevi, causa raggiunti limiti di età.
Queste 5 macchine sono racchiuse in uno spazio ben limitato (60 metri x 20) di un capannone (180 metri x 80).
Ora sono collocate una a fianco all’altra, mentre prima erano una dietro all’altra. In questo spazio sono collocate anche 3 saldatrici semiautomatiche e 5 impaccatrici (una a fianco di ogni trancia).
In più, ci sono scaffali per i vari ferri trancia, Io spazio dove collocare i vari convogliatori (si applicano sotto alla trancia e servono per convogliare i lamierini tranciati), i cassoni con i pezzi di semilavorati, bancali di legno con i prodotti finiti e contenitori per le bobine di lamiera da tranciare.
È il massimo utilizzo dello spazio!
C’è solo uno spazio di corridoio per il passaggio dei carrelli sollevatori e spazi di 30-40 cm., tra macchina e macchina, per il passaggio degli “addetti ai lavori”.
Così sei continuamente sottoposto a tensione continua per cercare di non urtare questi ostacoli, se vuoi tornare a casa “intero”.
È vietato sognare!
Già questo tipo di lavoro manuale, rispetto ad altri presenti in fabbrica, non è il più pesante: c’è quello di fonderia e quello di pressofusione, al confronto dei quali quello che faccio io è meno distruggente sia sul piano fisico che sul piano psichico.
In questo spazio di capannone passo le mie otto ore di fabbrica (fatta eccezione della mezz’ora per la mensa). Il rumore e la pericolosità sono le caratteristiche principali di questo tipo di lavoro. Mi balzano alla mente, ancora oggi, gli incubi notturni dei primi anni, causati dalla paura di farmi male o dai ritmi della trancia in lavorazione o dal cottimo che dovevo eseguire.
Come per i primi anni, ancora oggi mi occorrono circa 3 ore di tempo di riposo e di silenzio per recuperare la lucidità delle mie facoltà mentali, lucidità che comunque è sempre diversa da quella che ho durante i giorni di riposo o durante il periodo delle ferie.
Tutto questo mi è ulteriormente facilitato perché non ho “problemi di famiglia”, e soprattutto perché, per ben 33 anni della mia esistenza, le mie facoltà spirituali e materiali non sono mai state sottoposte a condizioni di sfruttamento fisico e psichico. E questo è un bel privilegio!
Sì, parlo anche a voi, maestri della legge!
Guai a voi, perché mettete sulle spalle della gente
dei pesi troppo faticosi da portare,
ma voi neppure con un dito aiutate a portarli. (Lc 11, 46)
22 NOVEMBRE 1987
È domenica, giorno dedicato al Signore, secondo la tradizione cristiana. Per i preti “pieno tempisti” è un giorno di “lavoro pastorale”; per me invece, che “pieno tempista” non lo sono più da 14 anni, è un giorno di riposo fisico e mentale: cerco, cioè, di recuperare le energie fisiche e psichiche spese durante la settimana per produrre “pane quotidiano”.
Non solo, ma sempre più frequentemente, specialmente in questi ultimi anni, è il tempo che maggiormente dedico ad approfondire il mio rapporto con Dio e con il suo progetto del regno.
Oggi, sollecitato dalle riflessioni di questi giorni, mi viene in mente l’episodio evangelico narrato da Luca nel cap. 10: il dialogo tra Gesù e le sorelle Marta e Maria.
Lo rileggo, mi soffermo in ascolto: avverto una strana sensazione di imbarazzo. Come mai?
Mi balzano alla mente i commenti fatti da me nei miei 9 anni di “pieno tempista” e quelli fatti dai vari sadducei e dottori della legge del “nostro mondo”.
Marta, Marta tu ti affanni e ti preoccupi di troppe cose!…
Maria ha scelto la parte migliore…
Che sia un rimprovero anche per me che ho deciso di non mantenermi più col “sacro”? Che sia una conferma evangelica che fare il pieno – tempista è tutto sommato più vicino alla volontà di Dio?
Possibile!? C’è qualcosa che non mi quadra!
Troppo di parte e interessata mi sembra questa interpretazione. Che Gesù voglia dirci qualche altra cosa di più serio e vero?
Si tratta di stabilire cos’è “questa parte migliore”.
Se la parte migliore è mettersi in ascolto di Dio e del suo progetto, il Regno, e del suo modo di renderlo concreto nella nostra storia, non è forse sulle condizioni di lavoro manuale, che sono di pesante ostacolo per milioni di uomini e di donne a soddisfare questo loro diritto di “figli di Dio”, che deve concentrarsi l’attenzione storica dei cosiddetti evangelizzatori?
Nessuno più parla di sfruttamento, di oppressione, di condizioni disumane di lavoro… Neppure i sindacalisti e i politici di sinistra contestano più l’organizzazione capitalistica del lavoro, la divisione tra lavoro di esecuzione e lavoro di progettazione, tra lavoro manuale e lavoro intellettuale!
È da scribi e farisei ipocriti buttare la croce sugli operai, dicendo che sono tonti, non capiscono niente, non sentono bisogni elevati!
E la situazione su questo terreno delle condizioni di lavoro, non solo non è molto cambiata rispetto ai tempi di mio padre, ma oggi, ogni ribellione viene propagandata come “lavativismo”, “assenteismo”…
Che questo lo facciano i servi dei padroni dei mezzi di produzione, passi: sono pagati profumatamente per questo! Che tutto questo sia sostenuto anche da chierici laici e religiosi, mi sa di disonestà intellettuale.
23 NOVEMBRE 1987
Ho ripreso il lavoro manuale, settimana di secondo turno.
Sono rientrato da poco: sono le ore 22,15.
Le condizioni fisiche non mi permettono di dedicare molto tempo alla “sola cosa necessaria” (cfr. Luca 10).
Solo brevi pensieri, dopo la lettura mattutina della solita Laborem Exercens.
L’uomo mediante il lavoro deve procurarsi il pane quotidiano…
Con il sudore dello fronte guadagnerete il vostro pane” (L.E.)
Ma io, durante i miei 9 anni di ministero sacerdotale a tempo pieno, non ho mai sudato nel senso vero del termine; per di più, il mio pane era più sicuro di oggi.
Le condizioni strutturali mi garantivano non solo il pane, ma anche il companatico e il dessert!
Se a tutto questo aggiungi il fatto che parecchio frutto del mio attuale sudore viene portato via dai proprietari dei mezzi di produzione, il mio rigetto di ogni spiritualità del lavoro diventa totale.
“Il Signore ha giurato…: – non permetterà più che il grano
diventi cibo per i tuoi nemici,
nè che gente venuta da ogni parte beva il vino frutto del tuo lavoro.
Chi avrà raccolto il grano lo mangerà,
chi avrà vendemmiato berrà il vino:
canteranno la loro riconoscenza a me
nei cortili del mio santo tempio” (Isaia 61, 8-9)
24 NOVEMBRE 1987
Oggi, nell’industria l’attività dell’uomo ha cessato in molti casi di essere un lavoro prevalentemente manuale, poiché la fatica delle mani e dei muscoli è aiutata dall’opera di macchine e di meccanismi sempre più perfezionati (L.E.).
Meno male, mi verrebbe da dire, altrimenti farei la stessa fine di mio padre, morto a 57 anni! Purtroppo la realtà è molto, ma molto diversa!
Reparto Tranceria: su 4 macchine trancia, 3 sono state progettate con criteri moderni.
La macchina su cui lavoro è nata 2 anni fa: tecnologia avanzata, direbbero i miei compagni. Ebbene, proprio l’introduzione di queste moderne macchine ci ha portato più fatica e più tensione nervosa.
La fatica delle mani e dei muscoli è aumentata con il taglio dei tempi di preparazione; per di più, da un anno c’è in atto un tentativo da parte dei vari direttori di produzione e di officina di tagliarci anche i tempi di produzione, cercando di farci aumentare i colpi trancia: passare da 140-180 colpi al minuto a 160-240 colpi al minuto.
Reparto meccanica: situato nello stesso capannone. Sono state introdotte macchine a controllo numerico: torni, trapani, frese. Ebbene, gli stessi operai di prima oggi sono costretti a lavorare con 3 macchine! Si parla spesso di neutralità della tecnica: sarà…
Certamente ciò che non è neutrale è la logica e il modo con cui viene usata questa tecnica. Hai voglia di sfoderare tutti i ragionamenti per cercare di convincere questi piccoli falchetti che c’è un limite, oltre il quale tutto è a danno dell’uomo (termine usato spesso negli ambienti cattolici più avanzati!).
“Ma signori, – ci dicono – i nostri concorrenti lavorano in condizioni peggiori delle nostre. Mica siamo un istituto di beneficienza. Siamo in guerra; ne va della stessa sopravvivenza dell’azienda”.
MORTE TUA VITA MEA
25 NOVEMBRE 1987
L’uomo, creato a immagine di Dio, mediante il
suo lavoro partecipa all’opera del creatore…
Tutti gli uomini? Ogni lavoro? Ogni modo di lavorare? Come è ancora profondo e largo il fossato che separa la realtà (il ciò che è), dal progetto di Dio (il come dovrebbe essere)…
Come mi è sempre più difficile pensare al mio lavoro manuale, a certi lavori manuali come strumenti per partecipare alla creazione del Padre! Se poi ascolti e rifletti dalla postazione delle cose che ti fanno produrre, qualcosa non mi quadra più.
È già molto se queste cose della Teologia del Lavoro fossero dette e scritte con i verbi al condizionale: almeno qualcuno in più tra i vari chierici, sarebbe stimolato a mettere il naso nella realtà di oggi, per vedere cosa c’è che non la fa ancora progetto di Dio e così fare qualcosa per cambiarla. Si chiamerebbero le cose con il proprio nome e cognome; si individuerebbero i meccanismi che non sempre fanno del lavoro attuale condivisione dell’opera del Creatore.
Quanta alienazione, quanta mistificazione, quanto oppio c’è ancora nell’attuale evangelizzazione del mondo occidentale!
Alcuni interrogativi mi vengono alla mente:
– cosa vuol dire evangelizzare in una società classista?
– con quali contenuti storici?
– con quali strumenti?
– come essere presbiteri oggi?
– perché continuare ad essere presbiteri oggi?
Cara Chiesa, che dici di essere di Dio, non puoi giustificarti con “ma io non sapevo… questo è marxismo…”
Mettiti in ascolto della povera gente, della loro esistenza. Interroga, fa’ parlare gli operai, (non i sindacalisti o i politici), fa’ descrivere a loro le loro attuali condizioni di lavoro e di vita. Raccogli queste “informazioni” e trasformale in evangelo storico. Solo così potrai veramente essere Luce / Sale / Lievito nel cammino dei popoli!
26 NOVEMBRE 1987
Il lavoro è un bene dell’uomo, è un bene della sua umanità, perché mediante il lavoro l’uomo non solo trasforma la natura adattandola alle proprie necessità, ma anche realizza se stesso come uomo ed anzi, in un certo senso, diventa più uomo. (L.E.)
Ci siamo: il lavoro nobilita l’uomo! Vallo a dire agli operai questo slogan, e ti sentirai rispondere: “ma lo rende simile a una bestia”.
Forse c’è dell’esagerazione in questo contro-slogan, ma si avvicina di più alla realtà del lavoro manuale di oggi.
Penso ai minatori, penso agli acciaieri, ai fonditori, ai fabbri, ai saldatori… con che coraggio si sostiene che questo tipo di lavoro li rende nobili, li rende più uomini!
Questo è oggi / qui / in Italia far di tutto per riprodurre il consenso degli sfruttati agli sfruttatori.
A volte osservo i miei compagni di tranceria o di pressofusione, specialmente quelli con alle spalle 25-30 anni di questo lavoro, invecchiati nel fisico e resi poveri nell’intelletto: con quale spudoratezza si ha il coraggio di dire che “questo lavoro” è stato un bene per loro, che questo modo di lavorare li ha realizzati?
Tu operaio, in fabbrica, sei nessuno, meno importante di una macchina: al massimo sei un numero, un costo! Ti tengono buono soltanto se sei utile a loro (= ai proprietari dei mezzi di produzione e ai vari direttori), cioè se condividi la loro logica e se rispetti le leggi economiche del loro sistema; se sei docile e pronto a spendere tutto di te per aiutarli a battere la concorrenza, a conquistare nuovi mercati, ad abbassare il costo del lavoro, a…
Appena ti ribelli e ti organizzi con gli altri operai per rivendicare più dignità, più libertà, condizioni di lavoro e di vita da “figli di Dio”… apriti cielo! Ti ricattano, ti emarginano, aumenta il controllo dei capi, e appena la situazione diventa a loro favorevole (= la crisi), ti scaricano! Oltre l’inganno, anche la beffa!!!
27 NOVEMBRE 1987
è terminata un’altra settimana di lavoro manuale.
Le cose ascoltate in questi giorni dalla Laborem Exercens mi hanno lasciato lo bocca amara. Ancora un’ultimo capoverso e poi basta!
“Il Lavoro ha come sua caratteristica che, prima di tutto, esso unisce gli uomini, ed in ciò consiste la sua forza sociale: la forza di costruire una comunità.
In definitiva, in questa comunità devono in qualche modo unirsi tanto coloro che lavorano, quanto coloro che dispongono dei mezzi di produzione, o che ne sono i proprietari” (L.E.).
Ci siamo: la fabbrica fatta vedere come una grande famiglia! Ho sentito spesso questa frase in incontri fatti con i vari direttori di turno, ma mai avrei immaginato di trovarla qui, in questa enciclica sul lavoro. Però, a pensarci bene non è che un altro linguaggio per sostenere la teoria interclassista: padroni e operai uniti insieme per costruire un mondo più giusto! E questa sarebbe la tanto propagandata dottrina sociale della Chiesa. Quanta alienazione, quanta mistificazione si nasconde dietro a questa dottrina sociale!
Mai come stasera ho risentita sulla mia pelle le angosce dei miei compagni di reparto quando, per la seconda volta nella storia italiana, i sindacalisti cattolici hanno rotto l’unità del Movimento Operaio Italiano.
– Cristo, tu c’entri qualcosa in tutto questo? –
I giusti sforzi per assicurare i diritti dei lavoratori, che sono uniti dalla stessa professione, devono sempre tener conto delle limitazioni che impone la situazione economica generale del paese (L.E.).
Caspita! Forse che il prof. Mortillaro, l’ideologo della Confindustria, abbia ragione quando afferma che non è possibile fare i contratti integrativi aziendali: non ci sono le condizioni!?
Sento che la mia testa sta scoppiando: ecco a cosa sta portando la filosofia dell’uomo, senza un nome e un cognome chiari!
– Maestro, che devo fare per entrare nella vita eterna?
– Fai strada ai poveri, senza farti strada!