Quale Chiesa / verso il convegno 2015


 

La chiesa che ho in mente ha una identità radicalmente cambiata, oggi, rispetto a quella che avevo in mente quando sono diventato prete. Prendo a punto di riferimento l’affermazione della Lumen Gentium: “Dio volle santificare e salvare gli uomini non individualmente e senza alcun legame fra loro, ma volle costituire di loro un popolo che lo riconoscesse nella verità e fedelmente.” (n.9). I soggetti che fanno la chiesa sono tutti i battezzati, il popolo di Dio che accoglie la Parola di Dio, aderisce alla fede trasmessa dai santi e la applica alla vita (L.G. 12).

Questa è una idealità mai raggiunta e sempre da perseguire, se è vero che la maggior parte dei credenti anche oggi è tradizionalista, passiva e per niente in grado di vivere una fede matura e adulta.

Sono prete da più di quarant’anni: quando fui “consacrato” c’era l’esaltazione dell’idea di “sacerdote” (ora il termine in campo teologico è in disuso, sconsigliato: vedi come cambia anche la teologia!)

Sono stato parroco per quasi trent’anni e ho vissuto non con i proventi del ministero e dell’istituzione chiesa, ma con quelli della mia professione.

Ho cominciato il mio ministero con l’idea di dover convertire le persone, perché la visione di chiesa era piramidale: oggi ho capito che “la chiesa è in Cristo, in qualche modo il sacramento, ossia il segno e lo strumento dell’intima unione con Dio e dell’unità di tutto il genere umano”(L.G.1) e in particolare popolo di Dio. La chiesa è un segno privilegiato della buona notizia che Gesù ci ha portato: Dio si interessa della vita degli uomini e vuole stabilire con loro un’unità di comunità. Il problema non è quello di convertire gli altri, ma che la comunità converta se stessa per essere segno più evidente di ciò in cui crede.

Tale era la visione della vita delle prime comunità, orientata a rendere chiaro a tutti che Dio ama gli uomini e non fa preferenza di persona, in contrasto con il messaggio giudaico. Il rapporto con Dio, per il credente in Gesù, non passa più attraverso la legge, il tempio e la casta sacerdotale, ma attraverso una vita disponibile verso gli ultimi e i bisognosi. Gesù ha cancellato per sempre la legge come strumento di salvezza, come era per i giudei; ha eliminato la casta sacerdotale, perché ogni uomo è figlio e parla da figlio con il Padre dei cieli; ha soppresso luoghi, tempi e cose sacre perché dopo Gesù tutto è santo e ci parla di Dio. La prima discussione dentro le comunità dei credenti era dovuta a questa nuova visione che la comunità giudaica non voleva accettare, proprio come non aveva accettato Gesù, mettendolo a morte.

Da allora molto tempo è passato e molte esperienze hanno profondamente mutato la chiesa e le comunità che ora sono le parrocchie.

Come ministro, nella chiesa, ho cercato di esercitare un servizio per la crescita della comunità in cui ho vissuto. Ho però maturato nel corso degli anni che era grande il peso dell’istituzione e mi sono reso conto che i fedeli, anche in retta coscienza, partecipano prevalentemente in forma privatistica e burocratica alla vita della parrocchia.

Il termine comunità per descrivere la parrocchia è fuori luogo. I fedeli, anche quelli più partecipi alla vita della parrocchia, sentono la loro presenza quasi sempre come partecipazione a una istituzione che è “una configurazione organizzata in relazioni sociali giuridicamente e storicamente orientata per garantire la conservazione e l’attuazione di norme e attività sociali e giuridiche”.

Anche la parrocchia è vista prevalentemente come istituzione burocratica: norme, riti, certificati, disposizioni. Nella mia prassi constato, per esempio, che molti fidanzati preparano il loro matrimonio religioso confrontandosi con le disposizioni del il libretto del rito, (magari scaricato da internet) perché è a questo che si fa riferimento, poi chiedono al parroco quali documenti servono. Basta: nella gran parte dei casi non li sfiora minimamente la necessità di essere partecipi alla vita di fede della parrocchia, che non percepiscono come una comunità, ma come una struttura burocratica, con leggi, funzionari e pratica da espletare. La stessa mentalità la trovo per i funerali, i battesimi e gli altri sacramenti. E’ certamente una degenerazione, ma dovuta a una precisa visione di chiesa che nei secoli si è consolidata ed è entrata nella mentalità dei fedeli.

La chiesa è un’istituzione appesantita da incrostazioni depositate nei secoli e ormai deformanti il suo nocciolo più vero e originario. Le parrocchie sono, in piccolo, delle istituzioni copie della madre da cui sono state generate.

Già la definizione di istituzione rende l’idea di una entità giuridica: infatti le parrocchie hanno un codice fiscale, un responsabile di fronte allo stato, percepiscono dei finanziamenti. E fin qui niente di male: il peggio è che dentro la vita ecclesiale l’aspetto burocratico ha il sopravvento in molti settori. Ecco alcuni esempi.

Le parrocchie sono proprietarie di beni. Non penso solo alle proprietà che sono investimenti economici e che fruttano rendite, penso alle chiese edifici. Sono il risultato di moti di fede dei credenti del passato, ma sono ormai inadatte al culto per una comunità. Sono enormi per dimensione frequentate nelle liturgie da gruppi sempre più ristretti, si prestano per celebrazioni che spesso sono più culturali e folkloristiche che vere espressioni di fede, richiedono opere continue di manutenzione a cui le parrocchie non riescono più a far fronte. Il ritrovarsi in chiesa per la celebrazione di un funerale, di un matrimonio, delle prime comunioni o cresime sono espressione di credenti che vogliono “meditare la Parola e fare Memoria di Cristo” oppure ormai prevale la dimensione esteriore di rito civile, sociale e culturale, in cui ha poco peso la dimensione della fede? Arriveremo un giorno a vedere una comunità parrocchiale che cede la sua bellissima chiesa, frutto di una fede che non c’è più, a un ente laico che la gestisce e la conserva, ma la libera dalle incombenze burocratiche ed economiche inerenti il suo possesso? Una comunità parrocchiale di oggi, ridotta di numero e priva di finalità culturali e civili in senso lato, può celebrare la sua vita di fede nel ristretto di una sala più adatta al numero di coloro che davvero hanno tempo e disponibilità d’animo per confrontarsi non con un rito, ma con la storia di una Persona che ha parlato di Dio agli uomini.

In ogni parrocchia, ogni domenica si celebrano dei riti: sono sempre leggibili da coloro che li frequentano? Non mi riferisco solo alle azioni liturgiche solenni, spesso ancora in latino, pompose e mastodontiche, celebrate nelle cattedrali, ma anche ai riti domenicali in cui prevale la preoccupazione di essere fedeli a un canone piuttosto che di mettere i fedeli nella possibilità di poter diventare attori della celebrazione. Gli interventi del celebrante, canone compreso, sono prefissati; il contatto con la vita quotidiana è quasi escluso (perfino le preghiere dei fedeli sono preparate altrove e non sono frutto dell’assemblea celebrante); ai fedeli è tolta ogni possibilità di intervento, sia perché non previsto, ma anche perché i tempi ritmati delle celebrazioni non possono prevederli. La liturgia è non è più quella dell’assemblea. Le comunità devono riprendersela, riscoprendo il pluralismo e l’inventiva creativa, non dando molto peso ai tempi, invitando i partecipanti a lasciare che la Parola e i Gesti parlino dentro di loro. Lo stesso vale per la celebrazione degli altri sacramenti ormai sottratta alla possibilità creativa dei fedeli. Ormai riti, gesti, parole, vesti, canti, scenografia sono poco adatti alla mentalità odierna, seppure siano portatori di una storia e cultura solenne, importante e pregna di valori.

I sacerdoti ( ministri?) nelle parrocchie sono il perno attorno a cui ruota tutta la loro attività. Sono calati dall’alto, spesso con logiche più di potere e burocratiche che di reale aderenza alle esigenze della parrocchia. Gestiscono la liturgia, la catechesi, la burocrazia, spesso il conto economico: tutta la vita della parrocchia dipende da loro, quasi sempre. Sono stipendiati e hanno sicurezza economica, comunque: li accudisce quasi sempre una struttura burocratica che li allontana dalla vita della gente, spesso in una condizione di solitudine.

Penso invece a un prete che si mantiene con il suo lavoro, scelto dalla comunità e non dall’alto; che vive in una casa posta in mezzo alla gente; che esercita il ministero anche a tempo; che possa anche avere una famiglia; che non assorba con la sua attività tutta la vita della comunità; che favorisca il nascere e lo svilupparsi di altri ministeri, come avveniva all’inizio della chiesa.

Le parrocchie e ancor più le curie sono ormai istituzioni burocratiche. Oggi la scarsità del clero ha costretto le diocesi a mettere in programmazione delle riforme. Ufficialmente il motivo è stato individuato nella necessità di comunione e nella collaborazione. In realtà al fondo c’è la ormai evidente impossibilità di fornire un sacerdote a tutte le parrocchie. Sono così in via di costituzione ovunque le cosiddette “Unità pastorali”: un insieme di più parrocchie guidate da più presbiteri ai quali è chiesto di spostarsi continuamente per far fonte a tutte le esigenze liturgiche. Mi pare un ulteriore innalzamento del livello burocratico. Questi poveri preti, perennemente in movimento, rischiano davvero di essere dei funzionari che aprono l’ufficio parrocchiale o la chiesa a ore e che spesso sono ridotti a fare certificati o accordarsi per la celebrazione dei sacramenti, quando non sono impegnati nelle pratiche per il mantenimento strutturale degli edifici sacri.

Altro sarebbe avviarsi a costituire delle comunità in cui i ministri nascono dall’interno, legati al territorio e non in perenne spostamento, non dei funzionari, ma dei credenti che esercitano nella loro comunità un ministero a servizio di tutti.

Daremmo il via alla nascita di una chiesa che non sia prevalentemente un’ istituzione, a delle parrocchie che siano prima e solo comunità, vicine alla povera gente e ai loro bisogni, capaci di far nascere iniziative caritative e assistenziali e che sollecitano lo stato a prenderle in carico, come è accaduto per gli ospedali, le scuole nei secoli scorsi: nati come iniziativa ecclesiale, sono divenuti poi uno dei compiti che lo stato si è assunto in forma prioritaria. Nascerebbero delle comunità, in cui tutti sono formati nella fede, capaci di esprimersi nella fede e ascoltati nella fede.

Di fronte a questa molteplicità di esperienze e progetti, quali dobbiamo potenziare e sostenere per permettere che sempre più le parrocchie siano espressione di tutti ( e non solo della gerarchia) e possano esprimere la fede in linguaggi e iniziative rinnovate? Quali iniziative o strutture parlano contro la povertà del vangelo?

Antonio Rosmini, nel suo libro “le cinque piaghe della chiesa” del 1848 segnalava come prima piaga la divisione del popolo dal clero nel culto pubblico: riti, lingua, segni, non parlavano più al popolo che partecipava al culto. La quinta piaga è data dalla servitù ai beni ecclesiastici che era un danno per tutta la chiesa e a questa aggiunge l’insufficiente educazione del clero.

Molto è cambiato e molto dovrà cambiare ancora. Insistere a tenere in vita strutture mastodontiche e fuori tempo può solo far male alla chiesa italiana. Ma è la visione di chiesa e di parrocchia che deve cambiare e con essa tutto quanto è connesso: ministri, riti, gestione. Forse, più che aspettare che tutto sia esaurito per inedia, converrebbe avere un po’ più di coraggio e sostenere il cambiamento, prevenendo, piuttosto che inseguendo nel solco del vangelo, le esigenze e le mentalità che cambiano.

Giancarlo Pianta


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