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Testimonianza
di Silvio Caretto

PRETI OPERAI: L’ESPERIENZA TORINESE

1. IL RETROTERRA

Per capire l’esperienza torinese è utile prima di tutto conoscere il retroterra, l’humus su cui l’esperienza è cresciuta. I preti da tempo erano presenti nelle fabbriche come cappellani del lavoro (sopratutto in FIAT) ed era presente prima ancora l’esperienza di molti laici credenti attivi sindacalmente. L’interazione tra queste presenze è alla base della nascita dei P.O. a Torino. (cfr. Margotti, La fabbrica dei cattolici).

Ma la presenza dei laici credenti sindacalizzati e dei cappellani del lavoro si diversificava su un elemento cruciale : la libertà di schierarsi. I cappellani a libro paga liberalmente avevano libertà di azione pastorale nelle fabbriche, ma non di esprimersi sulle tensioni interne.

Quando i laici sindacalizzati hanno cominciato a schierarsi anche duramente e a subire dure reazioni fino ai reparti confino, comincia una riflessione tra alcuni cappellani che li porta alla solidarietà non solo personale, ma anche pubblica. Trovo questo un elemento interessantissimo: dei preti imparano dai laici in fabbrica la dignità della libertà e si schierano. Chi di loro lo fa è espulso (Carlevaris e Revelli), con l’assenso tacito della curia di allora, sostanzialmente allineata con la direzione FIAT.

2. I VESCOVI

Chi pensa all’esperienza torinese, facilmente banalizza con la battuta “certo, con Pellegrino…”. Pellegrino non è spuntato per caso vescovo di Torino. Da tempo viveva un intenso rapporto con i cappellani di fabbrica, i laici sindacalizzati e i cammini di cui sopra. Non era il professore universitario chiuso nelle sfere accademiche. Questo è un altro elemento tipico dell’esperienza torinese, che continuerà sempre in rapporti con diversi esponenti universitari.

Pellegrino è presentato spesso, sia da chi lo avversava, ma anche sovente da ambienti vicini, come rivoluzionario. La mia personale convinzione è che la sua rivoluzione non deriva tanto da analisi storica, e dalla determinazione nell’applicare il concilio (presentissime entrambe), ma dalla frequentazione dei Padri, in lui fortissima. Dalla capacità di parresìa dei Padri della chiesa bisogna capire la parresìa di Pellegrino.

Mi soffermerei però un momento anche sulla presenza di Ballestrero, meno conosciuta. È certamente arrivato a Torino guidato da veline romane e anche noi l’abbiamo accolto non senza qualche diffidenza. I primi incontri con lui erano segnati quindi da precomprensioni e non crearono avvicinamenti. Comunque non bloccò alcuni cammini nati con Pellegrino, come l’esperienza di cammini particolari al sacerdozio di alcuni operai all’interno delle vocazioni adulte, ma indipendenti come curriculum concordato con la facoltà.

Non mi soffermo troppo, ma credo importante un fatto, anche mio personale, che ha svelato un Ballestrero meno noto. Quando uno di questi operai fu ammesso al sacerdozio, seppi che veniva ordinato ma che bisognava tacere il percorso da cui veniva. Come segretario dei P.O. la cosa mi irritò e riuscii, abusando della semplicità del parroco nella cui parrocchia avveniva l’ordinazione, ad avere la regia dei canti. Organizzammo la presenza di centinaia di ragazzi giocisti con canti scelti nel repertorio. Non nego che fu una specie di sfida.
Al termine della celebrazione, gelo e parlottamenti del Vescovo con suoi collaboratori; poi mi chiama e duramente: “Non si sfida così il proprio vescovo!”

Per tre anni aspetto di essere chiamato a rapporto. Dopo tre anni inaspettatamente viene lui a casa mia, cardinale e presidente CEI. Mi aspettavo la chiamata a rapporto di una autorità. Ho incontrato un padre: “Ora io conosco meglio te e tu conosci meglio il tuo vescovo”.

3. RADICAMENTO POPOLARE

L’evangelizzazione per alcuni di noi si espresse con l’incontro dell’esperienza Giocista che ci spinse a cercare i ragazzi, gli ultimi di allora, nei tempi della biblica immigrazione dal sud, i figli dei nuovi operai, quelli che non studiavano, che finita la terza media erano già nelle “boite” a imparare il mestiere, senza alcuna difesa. I precari di allora, che allora chiamavamo “i sommersi”. La GiOC oltre a questa sensibilità ci dava un metodo di lavoro popolare per arrivare con loro alla presa di coscienza e all’azione. Questo cammino popolare ha portato centinaia di giovani a esprimersi a buoni livelli come sindacalisti, amministratori comunali o come leader ecclesiali. La logica era: è da adulto che si deve esprimere la solidità di una esperienza giovanile.

Il radicamento popolare giovanile per la maggioranza di noi prese forma anche a livello ecclesiale scegliendo l’ancoraggio parrocchiale affiancato all’esperienza lavorativa.

Personalmente l’ho vissuta e continuo a viverla in questi termini. Le mie esigenze nella vita di fede non possono essere quelle di mia madre. Ho bisogno di mettere al vaglio la fede ricevuta in categorie preindustriali a una prova razionale forte. Cosa regge e cosa deve cambiare.

In questa ricerca personale comunque resta forte un confronto con la fede di mia madre e del popolo credente in cui sono immerso. Quella fede resta più robusta della mia. Questo radicamento con la fede popolare, questo confronto continuo mi salva da derive razionaliste. Continuo a pensare che è la fede popolare che salva la mia fede.

4. ALCUNE DOMANDE

  • Riduciamo la fede a sociologismo o tutto questo è parte integrale del messaggio di Gesù?
  • Questa evangelizzazione è compito di specializzati, di carismi paticolari o deve essere compito della pastorale ordinaria?
  • Il vangelo è una bomba. Non rischiamo di disinnescarla spiritualizzando sempre il messaggio?

Silvio Caretto

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