3)
La relazione del Card. Matteo Zuppi
presidente della CEI
(A)
Vi ringrazio per la vostra disponibilità a essere qui oggi a Bologna. Benvenuti! Dedichiamo questa giornata per inserirci nel Cammino sinodale della Chiesa italiana, nella fase dell’ascolto. Immaginiamo questo tempo come un Cantiere di Betania. Sentiamoci accolti da Gesù e disponibili ad accoglierci gli uni gli altri, con le nostre storie, fatiche, delusioni, ma sempre trasformate dal suo amore che tutto copre e tutto spera.
Veniamo da un cammino lungo. Non lo vogliamo dimenticare, sottostimare, come nemmeno cadere nell’errore contrario: pensarci combattenti e reduci, avvolti dal facile rimpianto per una stagione, davvero unica, che abbiamo vissuto. C’era tanto entusiasmo. Adesso non c’è. Il confronto con il presente, i compagni di strada che non ci sono, potrebbe suggerirci di entrare anche noi nel sempre folto plotone dei profeti di sventura. Portiamo le ferite del cammino: le delusioni date e ricevute, le incomprensioni spesso segno di un’attesa che non ha trovato la risposta desiderata, qualche volta lasciati soli.
Desidero dirvi grazie per il vostro servizio e la vostra testimonianza. Spesso vi siete sentiti ai margini della vita ecclesiale. Dal centro si fa più fatica a comprendere le periferie. Dobbiamo ritrovare la sobria ebbrezza della Pentecoste e vivere questa stagione della Chiesa con la stessa passione di quella primavera conciliare. Il fatto che la vostra vita sia trascorsa in luoghi di lavoro e non tra curie, sacrestie e uffici parrocchiali, ha aiutato questi a misurarsi con il mondo del lavoro, che non vuol dire problemi ma anche e soprattutto la persona, la domanda umana, antropologica indispensabile per comunicare il vangelo.
Capitava, lo ricordiamo, il rifiuto alla richiesta di potere servire la Chiesa come operai e spesso c’è stato anche l’ostacolare questa vocazione. È sempre la storia grande e misera della nostra chiesa e delle nostre comunità, della nostra stessa storia personale. Ma è la nostra storia della quale ringraziamo con convinzione Dio, perché in essa è passata la sua grazia e noi e tanti hanno vissuto la sua presenza.
Grazie perché avete creduto in quel modello di servizio alla Chiesa e vi siete dedicati con tutto voi stessi. Ci avete insegnato che nella Chiesa ci si può stare sia da preti che da operai, senza congiunzioni e forzature di sorta.
Questa giornata vuole essere un momento di ascolto reciproco, di riconciliazione e di condivisione ma anche di responsabile indicazione per il futuro. Come la Chiesa è dentro il mondo del lavoro e cosa significa una chiesa che lavora? C’era una parola-chiave, “comunità”, senza altri sostantivi o aggiunte se non di luogo: era un obiettivo, un programma, una scelta, mutuata direttamente dalla scoperta del Vangelo e dal concilio.
Come loro, di René Voillaume, che in francese aveva un altro titolo, inequivoco: Au coeur des masses. E con una libertà fuori da inquadramenti ideologici, dal fascino delle spiegazioni strutturali del marxismo, che, di nuovo, aveva un suo radicamento evangelico.
Preti che sentivano con dolore la frattura che si era creata tra Chiesa e mondo operaio. Quelli che Gilbert Cesbron aveva chiamato i “santi” che volontariamente “vanno all’inferno”, in un romanzo di grande verità che era stato pubblicato in Francia nel 1952 e aveva venduto un milione e mezzo di copie. In Italia pubblicato due anni dopo da un editore laico, che non si distingueva per indulgenze verso il cattolicesimo, Longanesi.
Il cuore della storia era la “missione di Parigi”: una storia, quella dei “preti operai”, cominciata nel 1944 e conclusa dieci anni dopo, nel 1954. Una storia coraggiosa, in un territorio inesplorato, quello dei quartieri operai della banlieu parigina e poi delle periferie delle grandi città francesi. Negli ultimi tempi di quella esperienza Pio XII si era espresso facendo pendere la bilancia da una parte: “Se bisogna scegliere tra l’efficacia apostolica e l’integrità sacerdotale, sceglierò l’integrità sacerdotale”.
Fare il prete operaio era difficile, ma era anche un’avventura travolgente – come ha scritto Andrea Riccardi – “tanto che al momento della chiusura ordinata da Roma, la maggioranza dei preti parigini al lavoro decise di non seguire le direttive della Santa Sede, ma di restare al proprio posto”. Non era stata un’esperienza di massa, visto che a Parigi erano stati in tutto una ventina; ma quei preti avevano voluto fare il grande viaggio del passaggio della Chiesa al mondo dei proletari, quello delle periferie e dei periferici.
Nel suo romanzo-verità Cesbron mostrava l’arcivescovo di Parigi, il card. Suhard, bruciante di dolore e di passione per i “lontani”: “Nelle ultime settimane trascurava le udienze ufficiali e i compiti da dieci anni quotidiani, per farsi condurre nella sua piccola automobile nera, triste e fuori moda come un sagrestano, attraverso i sobborghi di Parigi”. Per vedere “il suo popolo pagano”: “Tutti figli di Dio! E io sono responsabile di tutti loro…”.
Nel cuore della modernità francese Suhard scriveva sul suo diario, nel 1943, durante l’occupazione nazista: “L’insieme delle nostre popolazioni non pensa più in modo cristiano. C’è tra loro e le comunità cristiane un abisso. Bisogna uscire da casa nostra, andare a casa loro”. Padre Pietro, il prete di Cesbron, commentava tra sé e sé guardando la fermata del metro: “È lei la vera chiesa: infatti tutta quella gente là sotto ha prima bisogno di Dio”, “membri incoscienti della Chiesa”.
La comunità di Madeleine Delbrel tentava un altro modo di presenza nel mondo operaio. Erano esperienze non parrocchiali, comunità di quartiere in ambiente operaio. L’idea era di diventare presenti in ogni aspetto della vita del quartiere, da quella politica e amministrativa, alla vita quotidiana. A rue Victor Hugo 60, a duecento metri dalla fermata del metro e dal municipio di Montreuil, una dozzina di persone vivevano come missione la lotta alla miseria, non solo materiale, ma come stato della coscienza e dipendenza totale, subalternità di fronte al padrone di casa, della fabbrica, chiunque fosse detentore di qualcosa. E la via era quella della ricostruzione di una rete di rapporti umani diffusa “in grado di rispondere al desiderio di una vita più dignitosa” (M. Margotti, Preti e operai, Torino 2000, p.140).
Il mondo che incontravano, per Depierre, era come diviso in tre grandi gruppi, i “separati”, i sottoproletari e il popolo, gli operai. I primi erano quelli che, pure relativamente poveri, non si riconoscevano in quell’ambiente popolare, e aspiravano a uscirne al più presto e diventare piccolo-borghesi; rispetto alla Chiesa, non praticanti, con una domanda sociale e cultuale legata ai tempi importanti della vita.
I sottoproletari gli apparivano come portatori di una subalternità interiorizzata, così piegati dal bisogno da essere sempre alla ricerca di una protezione; così poco liberi che il Vangelo sembrava comunicabile solo passando dalla schiavitù e dalla coscienza della schiavitù, alla libertà.
Il grande mondo in mezzo, gli operai, il popolo, per il quale provava una simpatia profonda, quasi portatori di un cristianesimo ignoto e implicito di cui erano “profeti in movimento e la parte più viva del popolo di Dio”. «Non è organizzando il mondo che noi saremo innestati sulle nozze della Chiesa, ma con il portare in noi ciascuno degli uomini di questo mondo, ciascuno di quelli che incontriamo, dando loro non un’organizzazione di vita, ma il diritto di vivere nella nostra vita, comunicando loro tutto ciò che noi siamo, tutto ciò che è nostro, dal pane alla grazia».
Continuate a vedere la realtà con gli occhi della liturgia laica di Madeleine Delbrêl:
“Tu ci hai condotto stanotte in questo bar che ha nome “chiaro di luna”. Volevi esserci Tu, in noi, per qualche ora, stanotte. Tu hai voluto incontrare, attraverso le nostre povere sembianze, attraverso il nostro miope sguardo, attraverso i nostri cuori che non sanno amare, tutte queste persone venute ad ammazzare il tempo. E poiché i Tuoi occhi si svegliano nei nostri e il tuo Cuore si apre nel nostro cuore, noi sentiamo il nostro labile amore aprirsi in noi come una rosa, approfondirsi come un rifugio immenso e dolce per tutte queste persone, la cui vita palpita intorno a noi. Allora il bar non è più un luogo profano, quell’angolo di mondo che sembrava voltarti le spalle. Sappiamo che, per mezzo di Te, noi siamo diventati la cerniera di carne, la cerniera di grazia, che lo costringe a ruotare su di sé, a orientarsi suo malgrado e in piena notte verso il Padre di ogni vita. In noi si realizza il sacramento del Tuo amore”.
Oggi? Collocati all’interno del Cammino sinodale vogliamo guardare al futuro: quale Chiesa intendiamo immaginare, quale modello di evangelizzazione intendiamo proporre alla Chiesa del nostro tempo. La nostra bussola è il Concilio Vaticano II, che in Presbyterorum ordinis n.8 prevede l’esperienza dei preti operai come una forma di ministero che edifica l’unico corpo di Cristo:
«Tutti i presbiteri hanno la missione di contribuire a una medesima opera, sia che esercitino il ministero parrocchiale o sopra parrocchiale, sia che si dedichino alla ricerca dottrinale o all’insegnamento, sia che esercitino un mestiere manuale, condividendo la condizione operaia – nel caso ciò risulti conveniente e riceva l’approvazione dell’autorità competente -, sia infine che svolgano altre opere d’apostolato od ordinate all’apostolato. È chiaro che tutti lavorano per la stessa causa, cioè per l’edificazione del corpo di Cristo, la quale esige molteplici funzioni e nuovi adattamenti, soprattutto in questi tempi. Pertanto è oltremodo necessario che tutti i presbiteri, sia diocesani che religiosi, si aiutino a vicenda in modo da essere sempre cooperatori della verità».
Fa pensare oggi quell’inciso che sembra porre un velo di cautela, per cui si parla di convenienza e di approvazione necessaria (cosa che, peraltro, è richiesta per ogni ministero: nessuno si nomina da sé docente o parroco…), ma vorrei portare l’attenzione sul richiamo iniziale. Tutti, cioè, devono contribuire alla medesima opera, tutti lavorano per la stessa causa ecclesiale, che richiede continui e nuovi adattamenti. Perché non prendere sul serio questo mandato conciliare?
Sono trascorsi molti anni dal Concilio, ma oggi più che mai avvertiamo la necessità di adattare i ministeri alla nuova situazione ecclesiale, culturale e sociale. Desidererei molto che ciascuno di voi si sentisse chiamato in causa per sollecitare una riflessione sul ministero del prete e sulla sua formazione alla luce del Concilio, del magistero di papa Francesco e del tempo che viviamo. Vi sarei infinitamente grato se riuscissimo a mettere a fuoco questo tema: come la vostra esperienza può arricchire la Chiesa e il ministero del prete oggi, in un’epoca di crisi vocazionale senza precedenti e di tentazione di ridurre l’evangelizzazione al tappare i buchi lasciati vuoti dai preti mancanti. Una pastorale clericale non è la soluzione.
(B)
La vostra storia ha favorito la riscrittura del rapporto tra la Chiesa e il mondo alla luce del Concilio Vaticano II. Penso alle straordinarie aperture di Gaudium et spes. Marta Margotti così sintetizza la vostra vocazione: «L’antico sogno nuovo di una comunità cristiana non più padrona, ma serva, ai margini del potere perché centrata sul Vangelo, povera e per questo libera, ha trovato nell’esperienza dei preti operai un tentativo di realizzazione»(1).
Ci avete insegnato che in nome del Vangelo andava abbattuto il muro che abbiamo costruito con la modernità. La vostra incarnazione nella vita ordinaria del mondo del lavoro ha richiamato la Chiesa alla conversione: si tratta di mettere da parte qualsiasi uso civile strumentale della religione e di congedare una fede ridotta a paganesimo attraverso il devozionismo o pratiche intimistiche.
Probabilmente molti di voi possono raccontare una conversione personale avvenuta nelle fabbriche o in altri ambienti di lavoro. La povertà dei mezzi di evangelizzazione è diventata la vostra forza per raccontare come lo Spirito Santo anticipa le nostre attività super organizzate. La libertà di muovervi nel dialogo con il mondo operaio, talvolta anticlericale o considerato lontano, vi ha permesso di essere stimati per la concretezza dell’impegno sindacale o lavorativo. Si è rafforzata in voi la convinzione che gli operai non andavano convertiti, ma che il Vangelo era già presente nella loro vita e che c’erano già segni di Chiesa nei luoghi di lavoro. La fabbrica si è rivelata non solo una scuola di vita, ma anche una scuola di vangelo, perché la condivisione ha fecondato rapporti umani e sperimentato una solidarietà profonda. Avete anticipato la «Chiesa in uscita» tanto invocata da papa Francesco, in una conversione radicale del modello clericale che è duro a morire.
Certo, non tutto forse è andato secondo le attese. Ci sono state incomprensioni, pregiudizi e polemiche all’interno della Chiesa. Qualcuno si è sentito tradito e abbandonato. Ma il buono va raccolto e consegnato alla Chiesa di oggi e di domani, anche nella forma del tentativo non del tutto riuscito. Vale per tutti quello che ci ha ricordato Francesco in Evangelii gaudium n.49:
«Preferisco una Chiesa accidentata, ferita e sporca per essere uscita per le strade, piuttosto che una Chiesa malata per la chiusura e la comodità di aggrapparsi alle proprie sicurezze. Non voglio una Chiesa preoccupata di essere il centro e che finisce rinchiusa in un groviglio di ossessioni e procedimenti. Se qualcosa deve santamente inquietarci e preoccupare la nostra coscienza è che tanti nostri fratelli vivono senza la forza, la luce e la consolazione dell’amicizia con Gesù Cristo, senza una comunità di fede che li accolga, senza un orizzonte di senso e di vita. Più della paura di sbagliare, spero che ci muova la paura di rinchiuderci nelle strutture che ci danno una falsa protezione, nelle norme che ci trasformano in giudici implacabili, nelle abitudini in cui ci sentiamo tranquilli, mentre fuori c’è una moltitudine affamata».
Come non leggere tra le righe molti sentimenti che hanno sostenuto il vostro servizio e che hanno abitato i vostri anni da operai? Non vi siete rassegnati a vedere una Chiesa autoreferenziale mentre perdeva capacità di presenza negli ambienti di lavoro, tanto che il compianto torinese Gianni Fornero ha scritto: «Non siamo d’accordo a costruire la città di Dio sulle ceneri della città dell’uomo».
Avete sognato una Chiesa che non fosse separata dalla vita dell’uomo, ma che ne percorresse le strade; una Chiesa non sicura delle proprie ricchezze e risorse per imparare l’essenziale; una Chiesa che non avesse la risposta pronta a tutto per capire che la verità doveva conoscere il travaglio del dialogo; una Chiesa libera dal potere per sperimentare la potenza della grazia di Dio nella povertà umana.
Talvolta la vostra aspra critica alla Chiesa può aver radicalizzato le posizioni, ma penso che oggi sia il momento di ribadire a tutto tondo che la vostra è un’esperienza di Chiesa. Senza di voi i modelli di evangelizzazione sarebbero più stantii. E d’altro canto, senza il dono del battesimo e del Vangelo ricevuto nella comunità cristiana la vostra profezia non sarebbe stata possibile. Per questo desidero rendere lode al Signore per quello che siete e che siete stati, ossia «lavoratori della sua vigna» (Mt 20,1), come suggerisce il titolo di questa nostra giornata.
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(1) M. MARGOTTI, «Preti operai tra azione sociale, militanza sindacale e impegno cristiano», in S. CARETTO – T. PANERO – A. SVALUTO FERRO, a cura di, Preti in fabbrica, opera nella Chiesa. L’esperienza dei preti operai nella diocesi di Torino, Effatà, Cantalupa 2021, 24-25.
(2) Ibidem, 92.