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Il contributo
di Roberto Fiorini

E’ molto bello rivederci insieme, dopo tanti anni. Incontrare di nuovo i vostri volti mi rende felice.

Mi è stato chiesto di offrire un contributo all’inizio di questa assemblea di PO convocata dalla CEI. Quanto dirò si pone in continuità con gli appunti consegnati al card. Zuppi, prima dell’incontro del 22 novembre scorso. Trovate il testo nella documentazione distribuita.

Bologna. Ancora a Bologna. Per tanti anni Bologna è stato il punto di incontro del coordinamento Nazionale dei PO dagli anni ’80 al ’95 circa, ospiti di Villa Pallavicini. Per tre volte dall’82 all’85 ci siamo incontrati con la Commissione Cei per i problemi sociali e del lavoro, sempre a Bologna dopo un primo incontro a Roma. Successivamente al Convegno ecclesiale di Loreto su “Riconciliazione cristiana e comunità degli uomini”, la Commissione della Cei decise di chiudere il dialogo con noi. Da allora sono trascorsi 38 anni, 40 meno 2, quasi un tempo biblico, e siamo arrivati qui.

Credo sia stata una buona idea del card. Zuppi, presidente della Cei, quella di volerci incontrare de visu. Nessuno di noi pensava più a cose del genere. Erano proprio uscite dal nostro orizzonte. Ma quando l’invito è arrivato lo abbiamo accolto volentieri come una lieta sorpresa.

Anche il titolo scelto per questo seminario mi piace molto perché connette la vita di ciascuno di noi all’Evangelo, a una delle parabole del Regno. E credo che lo faccia non a partire da adesso, ma da quell’ora lontana nella quale ciascuno ha deciso di dislocarsi entrando in una vigna dalla maggior parte ritenuta altra rispetto a quella canonica, mentre ora, invece, sembra che si riconosca che ogni luogo può essere parte della vigna del Signore. Ogni luogo, anche dove si lavora, può ospitare una vita che diventa essa stessa parabola evangelica vissuta nella quotidianità. E’ quello che per tanti anni abbiamo tentato di fare ogni giorno nei rispettivi posti di lavoro.

Molti di noi hanno vissuto dall’interno, almeno in parte, imponenti trasformazioni dell’organizzazione del lavoro che hanno coinvolto in pieno la vita e le prospettive dei lavoratori.

La connessione tra tecnologia e lavoro è stata per lo più pilotata dal capitale in un periodo storico nel quale il pendolo si è decisamente spostato a vantaggio del profitto a detrimento dei salari. Con una svalutazione non solo economica, ma di potere e di valore, del lavoro come fattore umano. Dalle grandi fabbriche e dai mega impianti, a filiera continua, con catene di montaggio e parcellizzazione delle mansioni lavorative (Taylorismo), si passa all’impresa a rete, con disseminazione dei centri operativi in tutto il globo inseguendo i vantaggi nell’acquisto delle materie prime e nell’abbattimento del costo del lavoro. La rivoluzione informatica, la velocità dei mezzi di trasporto e la riduzione dei costi facilitarono l’adozione di una dimensione transnazionale.

M. Revelli riassume ottimamente questo passaggio: “Emerge…una devastante divaricazione tra un processo di estrema concentrazione del potere strategico nelle mani di pochi, potentissimi gruppi globalizzati – dotati di un elevato potenziale di mobilitazione di risorse immateriali (ideative, finanziarie, logistiche) – e un processo di estrema disseminazione delle funzioni operative in un numero crescente di piccole unità produttive – dotate di un forte potere di comando sul lavoro concreto”.

Warren Buffet, uno degli uomini più ricchi del mondo, non un marxista, in una intervista rilasciata al New York Times nel 2006 dichiarava candidamente: “Certo che c’è una guerra di classe, ma è la mia classe, la classe ricca che la sta conducendo, e noi stiamo vincendo”. Nel 2011, dopo la grande crisi del 2008, riprendeva il discorso in una nuova intervista affermando che la guerra di classe “l’avevano già vinta”. L’opinionista del Washington Post commentava: “se una guerra di classe c’è stata in questo paese, è stata ingaggiata dall’alto in basso, per decenni. E i ricchi hanno vinto”. La cosa è facilmente verificabile anche nella nostra situazione italiana. Perfino il destino del pianeta è per larga parte nelle loro mani.

Dopo questo breve e doveroso accenno, vorrei offrire qualche riflessione sul senso che noi abbiamo dato alla vita nei decenni del nostro lavoro. Prendo a prestito da papa Francesco il modello del poliedro “che riflette la confluenza di tutte le parzialità che in esso mantengono la loro originalità”, per mettere in luce aspetti, accentuazioni e differenze nel vivere la dimensione spirituale e culturale del nostro cammino concreto. Attraverso la figura del poliedro possiamo apprezzare la complementarietà e quindi la ricchezza che deriva dai vissuti testimoniati.

1. Il filone Evangelizzazione dei primi preti operai francesi impegnati nella Mission de France, dopo la lettura inquietante del libro France pays de mission che ha trovato un seguito anche fuori della Francia. E’ la vocazione a entrare nelle masse per portare il Vangelo. Lo stesso Paolo VI, nella lettera Octogesima adveniens, del 1971 sottolineava la missio da parte della chiesa di preti a vivere la condizione operaia per “esservi i testimoni della sollecitudine e della ricerca della Chiesa medesima”. L’esperienza concreta poi ha messo in luce che prima di pronunciare la parola era necessario vivere insieme e condividere. La vita ha bisogno di tempo. L’esperienza ci dice che sono necessari anche anni per rimuovere gli ostacoli, i pregiudizi. Inoltre c’era anche l’esperienza di solidarietà vissute e di abnegazione nell’affrontare le lotte che non potevano non richiamare la sostanza del Vangelo, però in una forma totalmente laica e implicita.

2. Il secondo è il filone della condivisione, sullo stile dei Piccoli Fratelli e Sorelle di Charles de Foucauld. Era l’acquisizione di un profondo “costume di vita”. L’essere con gli altri “come loro” e per loro. Questo poteva avvenire in forme diverse. Un esempio? La testimonianza di Sandro Artioli:

Rimasi in Breda Termomeccanica per 27 anni. Svolgevo il ruolo di fabbro-saldo-carpentiere. Era il ruolo lavorativo più pesante della mia fabbrica. Dopo un anno, di fronte al disastro del mio reparto, accettai di essere eletto delegato come volevano tutti i miei compagni. Sistemai il tutto, ma dopo due anni non mi proposi più come delegato e convinsi alcuni
miei amici giovani a farlo loro: dicendo che li avrei comunque aiutati.
Fare il delegato era per me un ruolo più comodo rispetto a quello dei miei compagni: che dovevano lavorare tutto il giorno senza godere dei rilassanti permessi sindacali.
L’Azienda mi ha più volte proposto di avanzare in forme di lavoro più raffinate: ma io mi sono sempre rifiutato perché volevo condividere sempre la condizione degli operai più pesantemente massacrati.
Nonostante il mio pesante lavoro, mi buttai nell’innescare tra i miei compagni la necessità di far nascere una
autorganizzazione di base. Affittai un piccolo locale vicino alla fabbrica per riunire molti lavoratori a
discutere e decidere.
Il lavoro mi aggredì profondamente. Mi sentivo sempre molto stanco e affaticato.
Ho subito quattro infortuni, i cui più gravi furono la rottura della vertebra e il massacro di un ginocchio. Poi, con gli esami che ci hanno fatto per essere stati esposti all’amianto, mi hanno trovato le placche pleuriche ai polmoni. Andai quindi in pensione nel 2002.
La mia vita è stata un collocamento radicale nella stiva dell’umanità.

3. Il filone delle “Classi sociali”, del “Soggetto storico”, del “Luogo del conflitto”. Qui domina l’istanza etica. Per noi è stato un esempio classico la narrazione di don Cesare Sommariva, nel suo libro “Le due morali. Scelte imprenditoriali, lotte sindacali e intervento culturale alla Redaelli Sidas di Milano dal 1979 al 1984”. Cinque anni di lotta tra la direzione della fabbrica che imponeva la chiusura dell’acciaieria e gli operai che difendevano il posto di lavoro. 

Alla fine di marzo del 1984, in un ennesimo incontro in regione il commissario straordinario Brugger conferma che ormai la decisione di chiudere la Sidas è stata presa e si attendono a giorni gli adempimenti formali da parte del governo. Quando la notizia giunge in assemblea l’effetto è indescrivibile. Sul momento decidiamo di stendere una lettera da inviare a Brugger. È un testo breve ma riassume lo stato d’animo di tutti ed è in fondo la miglior testimonianza con cui si possono leggere i cinque anni di lotta per salvare la Redaelli.

Milano, 3 aprile 1984
Al professore Gualtiero Brugger, Via Larga 31, Milano
Un profondo senso di rifiuto e di angoscia ci ha preso quando, nell’assemblea di venerdì 30 aprile 1984, abbiamo ascoltato quanto Lei ha detto in regione il giorno precedente.
Per Lei «lettere di licenziamento» sono tre parole che sono «una conseguenza inevitabile».
Per ciascuno di noi quelle parole sono un attacco e un insulto alla nostra dignità, alla vita nostra e delle nostre famiglie.
Da cinque anni noi viviamo la sofferenza dell’incertezza. Lei queste cose può certamente conoscerle, ma non può «saperle». Per Lei noi possiamo apparire come «conseguenze» in mezzo o in fondo a un bilancio le cui cifre si possono non difficilmente manovrare.
Ma questa «morale» noi la rifiutiamo. Per noi la vita umana, la dignità dell’uomo, il diritto di tutti a vivere in modo uguale, viene prima delle cifre e dei bilanci.
Sappiamo che attualmente questa morale è perdente. Ma allora ci sembra che sia perdente anche la vita.
A chi e a cosa serve la Sua professione?
Le abbiamo scritto queste cose perché sappia che la nostra condizione di classe ci porta ad avere una morale in contraddizione con la Sua. Appunto per questo noi Le auguriamo di non dover mai provare nella Sua vita l’offesa, la
sofferenza, l’incertezza che noi stiamo provando.

Gli operai della Redaelli di Rogoredo

All’unanimità in assemblea abbiamo approvato il fatto di scriverLe così. Alleghiamo il foglio con le firme di chi è presente (circa 250 operai)

Questi primi tre filoni li ho presi dalla classificazione descritta da don Cesare.

4. Credo si debba aggiungere la tematica della chiesa povera e dei poveri. Ricordiamo la bella espressione di Giovanni XXXIII all’inizio del Concilio: “Altro punto luminoso. In faccia ai paesi sottosviluppati la Chiesa si presenta quale è, e vuole essere, come la Chiesa di tutti, particolarmente la Chiesa dei poveri”.
Per molti di noi ha significato uno stimolo a immaginare il ministero in maniera altra, con la spinta a collocarci all’interno di condizioni dove la povertà era vissuta in maniera strutturale, sul fronte economico, ma non solo. La condizione operaia, assunta come scelta esistenziale, rappresentava l’opzione in linea con il dare volto a una chiesa povera.

5. A questo si aggiunge quanto espresso in particolare da don Luisito Bianchi in tutta la sua fecondissima produzione letteraria: occorre la gratuità del ministero per poter annunciare gratuitamente il Vangelo. Per lui questo era l’unico senso del prete al lavoro. Il tema della testimonianza gratuita era condiviso da molti altri PO. Per me è stato il movente primo della mia scelta di entrare nel mondo del lavoro. In una sua lettera dopo una giornata trascorsa insieme con i PO lombardi così mi scriveva: “Vengo all’impressione straordinaria di sabato. Una ricchezza enorme…Ma è una sfida, a livello teologico, storico, sociologico alla Chiesa delle strutture, che ha decretato essere inesistente nella sua storia, de facto, la gratuità del ministero, dato che, ex officio, uno che si fa prete, al momento stesso dell’ordinazione, ha il diritto alla busta-paga. Cose inconcepibili, anche solo pensando all’affronto alla libertà e dignità di un prete che sceglie non per avere uno stipendio”.

6. Recentemente, con lieta sorpresa, ho incrociato un nuovo filone messo in luce dal gruppo dei preti operai francesi, pubblicato sul Courrier de P.O. del gennaio 2017. ll Ministero simbolico che utilizza la categoria della rappresentanza di mondi diversi e lontani nei quali il prete operaio è pienamente inserito:
«La comunità umana del P.O. è essenzialmente una comunità che non si dice riunita da Gesù Cristo, che non si riconosce nella proclamazione dei fondamenti della fede cristiana. Attorno alla tavola eucaristica (come nella comunità dei credenti) il P.O. è di quelli che rappresentano il popolo che non è presente, il popolo verso il quale la chiesa e ogni credente sono inviati, il popolo assente che dona la ragion d’essere alla comunità ecclesiale perché essa è là per rispondere all’invito del Signore: “Andate e annunciate a tutte le nazioni…». Bonhoeffer parla del principio della “sostituzione vicaria” come “agire rappresentativo” che direttamente si riferisce a Gesù.

Successivamente ho scoperto che don Sirio Politi ha utilizzato questa categoria per descrivere il senso della sua scelta operaia in un cantiere navale di Viareggio. Siamo nel 1959. Il card. Pizzardo dell’allora sant’ufficio pubblicava un documento che così si esprimeva: “La Santa Sede ritiene che il lavoro in fabbrica o nel cantiere sia incompatibile con la vita e gli obblighi sacerdotali”. Sirio si prese 15 giorni di riflessione e decise di lasciare il lavoro in cantiere, passando a un lavoro artigianale, per mantenersi. Nel suo libro “Uno di loro” così esprimeva la sofferta decisione:

“Li lasciavo dopo tre anni. No, è chiaro, non sono di loro. Anche facessi miracoli non apparterrò a loro. Non sono più uno di loro e quindi non sono loro nemmeno davanti da Dio. E questo è terribile. E questo la Chiesa non lo doveva volere. Perché è giusto che questo povero mondo operaio abbia qualcuno che sia di lui veramente, sinceramente davanti a Dio. Che lo rappresenti con diritto”

Chiudo ricordando la nostra scoperta dei lunghi anni vita nascosta di Gesù a Nazareth, conosciuto come ó τού τέκτονος υιός (Mt 13,55) e addirittura come ó τέκτων (Mc 6.3), la sua identità professionale. E lo faccio dando la parola a mons. Ratzinger, allora arcivescovo di Monaco che, in un libretto dedicato ai suoi confratelli nel 25° della loro ordinazione (1951-1976) scriveva:

«Charles de Foucauld ha trovato il suo Nazareth […] in Siria, in una trappa ancora più povera […]. Da là scrive alla sorella: “lavoriamo come i contadini, lavoro infinitamente proficuo per l’anima, durante il quale si può pregare e meditare… Si comprende bene cosa sia un pezzo di pane quando si sa per esperienza quanta fatica costa il fabbricarlo”. Charles de Foucauld, seguendo le tracce dei “misteri della vita di Gesù” ha trovato il lavoratore Gesù. Ha incontrato il vero Gesù storico. [… ] Laggiù, nella meditazione vivente su Gesù, si aprì, così, una nuova via per la Chiesa. Perché lavorare con il lavoratore Gesù e immergersi in Nazareth, costituì il punto di partenza dell’idea della realtà del prete al lavoro. Fu per la Chiesa una riscoperta della povertà. Nazareth ha un messaggio permanente per la Chiesa. La Nuova Alleanza non comincia nel Tempio, né sulla montagna santa, ma nella piccola casa della Vergine, nella casa del lavoratore, in uno dei luoghi dimenticati della ‘Galilea dei pagani’, dalla quale nessuno aspettava qualche cosa di buono. Solo partendo da lì la Chiesa potrà prendere un nuovo slancio e guarire. Non potrà mai dare la vera risposta alla rivolta del nostro secolo contro la potenza della ricchezza, se nel suo seno Nazareth non è una realtà vissuta» (“I piccoli fratelli 2/2005, pp. 9-10).

Che significa per la Chiesa assumere Nazareth nel proprio seno per poter vivere e guarire?

Roberto Fiorini

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